Basaglia e San Lazzaro

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180 per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici, ormai universalmente nota come “Legge Basaglia” che è stata la prima legge al mondo a disporre la chiusura dei manicomi e l’Italia resta a tutt’oggi l’unico paese ad avere attuato in modo così radicale questo processo.
Con questa legge sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici italiani e l’assistenza psichiatrica si è spostata sul territorio, nella comunità. Mentre l’internamento in manicomio sanciva l’esclusione sociale dei pazienti, da oltre quarant’anni ormai la società Italiana riconosce che anche le persone sofferenti psichiche hanno pari diritti degli altri cittadini e che anche per loro non vi può essere cura senza inclusione sociale. Il contrario di ciò che poteva offrire la vita in manicomio, chiusa all’interno delle sue mura.

Franco Basaglia ci ha lasciato nel 1980, poco più che cinquantenne, e lo ricordiamo con riconoscenza con alcune sue citazioni significative del suo percorso di psichiatra “illuminato”.

<< La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere.>>

<< Per me, che si parli di psicologo o di schizofrenico, di maniaco o di psichiatra è la medesima cosa: sono tanti i ruoli, all’interno di un manicomio, che non si sa più chi è il sano o il malato.>>

<< Aprire l’Istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato…>>


L’Istituto Psichiatrico San Lazzaro  –  La Cà di Pòm

La definizione di Cà di Pòm (casa delle mele) comunemente utilizzata a Reggio per indicare il San Lazzaro, origina dal periodo della prima guerra mondiale, nel quale il San Lazzaro tra il 1917 e 1918 ospitò intorno ai cinquemila soldati, la maggior parte dei quali, per ragioni igieniche erano “rapati” a zero. Da fuori le mura si vedevano quindi un gran numero di teste calve aggirarsi all’interno, da qui La Cà di Pòm.

Fondato su di un antico lebbrosario del 1217, il San Lazzaro diviene prima ricovero per appestati, poi ospizio per poveri e mendicanti e dal 1536 per malati di mente. E’ nelle prime decadi del 1800 che l’Istituto evolve a vera e propria casa di cura mentale fino ad acquisire una certa fama europea intorno al 1850. Il San Lazzaro diviene quindi uno dei più importanti Manicomi italiani e negli ultimi 150 anni di attività ha accolto circa 100.000 ricoverati.

Oggi l’ormai ex San Lazzaro ospita la Biblioteca Scientifica Carlo Livi, che fu direttore dell’Istituto dal 1873 al 1877 anno della sua morte, e che la istituì in quegli anni. La biblioteca dispone di un patrimonio archivistico di importanza assoluta nel panorama italiano, poiché conserva una ricca testimonianza di ogni aspetto della vita e della gestione dell’istituto, il cui aspetto principale è costituito dalle cartelle cliniche, raccolte sistematicamente dal 1871 in poi.
Link alla Bilbioteca Scientifica Carlo Livi

Nel Padiglione Lombroso è stato allestito l’interessantissimo
Museo di Storia della Psichiatria
Link alla pagina del Museo del sito del Comune di Reggio

Nel 1921 viene costituita la Colonia-Scuola dedicata al medico sociologo piemontese Antonio Marro, e voluta dal direttore Guicciardi per l’educazione dei bambini definiti allora arretrati o anormali. Questa si rivela un’esperienza importantissima per dare istruzione ed un posto nel mondo e nella vita a tanti bambini sfortunati che spesso erano “anormali” solo nell’ambiente e nelle condizioni da cui provenivano. Già nel 1931 il reparto venne dotato di una palestra e di laboratori artistici ed artigianali.
Alcuni di noi ragazzi settantenni ricordano ancora come appunto da bambini all’Ospizio per dare dello stupido ad un altro bambino gli si diceva “mo va al Marro”.

La direzione di questo reparto del San Lazzaro in cui i bambini venivano curati soprattutto tramite ergoterapia, viene affidata nel 1922 a Maria Bertolani Del Rio. Nell’ambito di questo progetto, fra il 1928 e il 1935 la scienziata condusse l’esperienza dell’ Ars Canusina, tecnica che deve il suo nome alla figura di Matilde di Canossa, della quale la Del Rio sarà appassionata per tutta la vita, e che consisteva nella riproduzione su diversi materiali di motivi ornamentali tipici dell’arte romanica preventivamente selezionati e raccolti nell’album Ars Canusina da lei pubblicato nel 1935.


Prendiamo spunto dagli ex luoghi della “diversità” mentale per condividere alcune opere di artisti che ci ricordano con le loro parole emozionanti cos’erano i manicomi e che queste diversità sono comunque vissute in prima persona, come nel caso della Merini, per sua drammatica esperienza diretta.

IO COME VOI SONO STATA SORPRESA


Io come voi sono stata sorpresa
mentre rubavo la vita,
buttata fuori dal mio desiderio d’amore.
Io come voi non sono stata ascoltata
e ho visto le sbarre del silenzio
crescermi intorno e strapparmi i capelli.
Io come voi ho pianto,
ho riso e ho sperato.
Io come voi mi sono sentita togliere
i vestiti di dosso
e quando mi hanno dato in mano
la mia vergogna
ho mangiato vergna ogni giorno.
Io come voi ho soccorso il nemico,
ho avuto fede nei miei poveri panni
e ho domandato che cosa sia il Signore,
poi dall’idea della sua esistenza
ho tratto forza per sentire il martirio
volarmi intorno come una colomba viva.
Io come voi ho consumato l’amore da sola
lontana persino dal Cristo risorto.
Ma io come voi sono tornata alla scienza
del dolore dell’uomo, che è la mia scienza.

Alda Merini
da: Ballate e non pagate

MÉ CME UÊTER A SÛN STĒDA SORPRÈISA

Mé cme uêter a sûn stēda sorprèisa
mèinter rubèva la véta,
sbatûda fôra da la mé voja d’ amōr.
Mé cme uêter an sûn mìa stēda scultéda
e j’ò vést al sbari dal silèinsi
crèsrom d’atōrna e s’cianchèrom i cavî.
Mé cme uêter  j’ò piansû
j’ò ridû e j’ò sperē.
Mé cme uêter am sûn sintuda s’cianchèr
i vistî da dóss
e quând m’àn dē in mân
la mé vergogna
j’ò magnē vergogna tótt i dé.
Mé cme uêter j’ò ajutē al némigh,
gh’ò avû fèid in di mé misér pânn
e j’ò dmandē cosa al sia al Sgnōr,
pó dal pinsēr che Ló al gh sia.
j’ò catē la forša per sintîr al martéri
vûlerom d’atórna cme ‘na clòmba viva.
Mé cme uêter j’ò consumē 
l’ amōr da per mé
lûntana financa dal Crést risōrt.
Mó mé cme uêter sûn
turnèda a la siĵnsa
dal dulōr ed l’óm, ch’l’é la mé siĵnsa.


Poesia in dialetto recitata dalla nostra B. Partisotti su sottofondo da Almost Blue di Chet Baker

Un Matto
(dietro ogni scemo c’è un villaggio)

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
E non riesci ad esprimerlo con le parole
E la luce del giorno si divide la piazza
Tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa.

E neppure la notte ti lascia da solo:
Gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro
E sì, anche tu andasti a cercare
Le parole sicure per farti ascoltare
Per stupire mezz’ora basta un libro di storia
Io cercai di imparare la Treccani a memoria
E dopo “maiale”, “Majakovskij”, “malfatto”,
Continuarono gli altri fino a leggermi “matto”

E senza sapere a chi dovessi la vita
In un manicomio io l’ho restituita
Qui sulla collina dormo malvolentieri
Eppure c’è luce ormai nei miei pensieri
Qui nella penombra ora invento parole
Ma rimpiango una luce: la luce del sole.

Le mie ossa regalano ancora alla vita
Le regalano ancora erba fiorita
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
Di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina
Di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia:
“Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”.

Fabrizio De André
da: Non al denaro non all’amore né al cielo. 1971

Un mât
(Dedrée a ógni sēmo a’gh’è un vilâg)

Té prôva ad avèir un mônd in dal cōr
E cavêrgla mia a dîrèl cun al parôli
E la lûs dal dé la s’divéd la piâsa
Tra un vilâg ch’al réd ed tè, al sēmo, ch’al pâsa.

E gnânca la nôta l’at lâsa da té:
Ch’ j êter insògnen se stèss, lòur te  t’ l’insògn té.
E sé, ânca té t’andarés a serchêr
Al parôli sicûri per fêret scultêr
Pr’ incantêr mèz’òura l’é assèe un léber de stôria
Mé a j ò serchê d’imparêr la Treccani a memôria
E dôp “maiale”, “Majakovskij”, “malfatto”,
j’ân cuntinvèe ch’j êter fin a lēz’rom “matto”.

E sèinsa savèir la véta csâ l’è
In un manicômi mé l’ò dêda indrée
Ché in dla  culèina e dòrom mēl luntēra
Epórr gh’é dla lûs in di mé pinsêr
Ché in dal berlóm adèss invèint dal parôli
Mó a’m mânca ‘na lûs: la lûs dal sòl.

I mé ôs e regalen ancòra a la véta
Égh regalen ancòra l’êrba e ‘na margarèta
Mó la véta l’é armêsa in dal vòuš in surdèina
Ed chi la pêrs al sēmo e a j piânz in culèina
Ed chi ancòra al fâ scultèin cun la stèsa ironía:
“generòusa la môrt ch’al l’à s’cianchée  a la pazzia”.

Poesia in dialetto recitata dal nostro L. Cucchi su sottofondo da The Long Road di Eddie Vedder


La canzone di Simone Cristicchi dedicata a chi stava dall’altra parte del muro
Ti regalerò una rosa

ISCRIVITI ALLA NOSTRA NEWSLETTER PER RICEVERE OGNI VOLTA LA SEGNALAZIONE DI UN NUOVO POST

DISCLAIMER | COOKIE POLICY | PRIVACY POLICY

1 commento

  • come am vin bein far al semo dal vilagg…Che sia un segno?

Lascia un commento