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L’ANTEFATTO
      I  dialettologi e gli esperti di programmazione linguistica raccomandano a chi voglia tutelare le lingue locali e i patrimoni linguistici di spaziare tra tutte le possibili forme di espressione: dalla poesia alla prosa, dal teatro al cinema, dai burattini alla musica in tutti i suoi generi. Dalle favole e filastrocche per bambini alla satira, dai proverbi popolari ai temi più impegnati. Si deve parlare di politica, di sport, di attualità, di tutti gli argomenti.

      Uno dei punti di arrivo delle varietà linguistiche meglio tutelate è la versione in lingua locale dei grandi classici: Pinocchio, il Piccolo Principe, la Divina Commedia, la Bibbia sono libri che sono stati tradotti in molte lingue ufficiali, ma anche in molte varietà dialettali prestigiose. Trattare la lingua locale al pari dell’inglese, del francese e di altre lingue ufficialmente riconosciute è un modo per conferirle importanza e dignità. Chiacchierando con alcuni “colleghi” che condividono con me la passione per la linguistica e per le lingue locali in particolare, un giorno ci siamo ritrovati a chiederci quale fosse l’opera che ognuno avrebbe gradito nella propria lingua locale.  Ovviamente è partito il brainstorming e sono emerse centinaia di proposte e idee: I promessi sposi! Harry Potter! Il nome della Rosa! I Malavoglia! Bar SportDe Amicis, Hemingway, Paulo Coelho

Nella mia testa si accese subito una lampadina: e perché non Silvio d’Arzo? Sono bastati pochi secondi per rendermi conto e convincermi sempre più che “Casa d’Altri” fosse più di ogni altra cosa ciò che faceva al caso nostro. Facilmente realizzabile (è a metà tra il romanzo breve e il racconto lungo), linguaggio semplice e raffinato al tempo stesso, così come sa esserlo il nostro dialetto. E un’ambientazione in tempi e luoghi in cui sicuramente si parlava dialetto. A ben pensarci è “Casa d’altri” nella versione in italiano a essere una traduzione, per quanto ben fatta. Perché sicuramente, nel raccontare i personaggi e le loro vicende l’autore ha dovuto esprimere nella lingua nazionale ciò che in una realtà simulata il protagonista avrebbe naturalmente espresso in dialetto. Io avrei dovuto solo riportarlo all’originale, semplicemente chiudendo gli occhi e immaginando che a raccontare fosse uno dei tanti amici di mio zio, quasi suo coetaneo, o una delle vecchie che venivano a fare la “scapinèla” nel tinello di mia nonna quando ero bambino.

 

LA CONVINZIONE
Questo aspetto non è da trascurare in un momento storico come questo, in cui il nostro dialetto rischia di scomparire ed è sempre meno praticato. La maggior parte di noi è oggi abituata a sentire il dialetto, non solo in occasioni sempre più rare, ma limitatamente ad alcuni contesti. Proporre un registro diverso e parlare di argomenti inconsueti  porta con sé il rischio di presentare una lingua percepita come estranea persino dai parlanti. L’italiano lo viviamo nel quotidiano in tutti gli ambiti. Siamo abituati a sentire dibattiti e conferenze di ogni genere, a leggere libri con contenuti elevati, a vedere film, serie televisive e pubblicità che ci propongono l’italiano standard come normalità.
E ormai non facciamo più caso a quanto l’italiano proposto sia sostanzialmente diverso da quello parlato da noi. Proviamo a pensare di riproporre gli stessi dialoghi con le stesse esatte parole di una serie televisiva ai vostri famigliari. “A che pensi? Ricordi il giorno in cui giungemmo qui in città e ci trasferimmo nella soffitta di nonna? Te ne ricordi?”
Ci guarderebbero sicuramente in modo strano. Ci chiederebbero se abbiamo mangiato un vocabolario, o se stiamo recitando una parte per una rappresentazione teatrale. Lo stesso se parlassimo “burocratese” o proponessimo il testo di un libro pari pari. Mentre leggiamo o ascoltiamo queste cose in tv non abbiamo le stesse sensazioni. Ci sembra tutto normale. In dialetto invece cambia tutto. Non siamo abituati a sentire argomenti diversi da quelli sentiti in ambito famigliare. E’ un’abitudine che potrà arrivare col tempo, se la lingua locale si risolleverà e ritroverà la dimensione che le spetta. Per il momento, l’ideale sarebbe partire gradualmente e iniziare a proporre cose che non ci appaiano troppo lontane da una realtà vissuta. E “Casa d’altri” mi è sembrato da subito perfetto.

Più ci pensavo più non trovavo motivo per non fare questo lavoro. Oltretutto noi reggiani Silvio d’Arzo lo portiamo nel cuore. È qualcosa di “nostro” al pari della nostra lingua. Ne siamo orgogliosi e a ragione. Il parallelo con la lingua locale è azzeccatissimo: prezioso, qualitativamente elevato, gradevole nella sua semplicità. Penso sia doveroso rendergli omaggio mettendolo ai primi posti tra le opere da tradurre, oltretutto nella sicurezza che quanto fatto sarebbe sicuramente apprezzato dall’autore stesso. Almeno nelle intenzioni. Ci sono opere di alcuni autori che i critici letterari italiani hanno elevato a testi sacri e in quanto tali la loro traduzione in dialetto è considerata da molti quasi una profanazione. Manzoni viveva con vergogna la propria inflessione dialettale. Anche Dante non aveva speso belle parole riguardo ai dialetti romanzi dell’Italia settentrionale che riteneva cacofonici e poco adatti all’espressione poetica. Pareri discutibili nei tempi moderni e da me non condivisi, ma che potrebbero comunque dissuadere potenziali traduttori per una sorta di rispetto.
Questo rischio non si presenta con Silvio d’Arzo, che era un cultore della lingua locale, tant’è che la glottologia del dialetto reggiano fu proprio l’argomento che scelse per la sua tesi di laurea. Pur scrivendo in italiano si esprimeva correntemente in dialetto e lo padroneggiava, come del resto tutti a quei tempi. All’epoca, la lingua locale non aveva bisogno di tutela; al contrario, era la lingua nazionale che doveva essere insegnata e perfezionata. Anche le sue opere scritte in italiano (e che italiano!) hanno contribuito alla diffusione della lingua nazionale. Oggi ci ritroviamo a fare il contrario e sono convinto che l’autore sarebbe ben felice di contribuire anche questa volta a salvare la sua lingua di origine.

VARIETÀ LINGUISTICA E SCELTE GRAFICHE DI CORRISPONDENZA SEGNO-SUONO
La varietà linguistica che ho scelto per presentare l’opera è il reggiano periferico. Non il reggiano inframurario che troviamo sul vocabolario reggiano-italianoufficiale”, ma la varietà oggi più rappresentata, con una variabilità maggiore, frutto degli intrecci di varietà locali presenti oggi in ciascuna famiglia. È, in sostanza, il dialetto che parlo io, che, nato nell’era dei motori, ho avuto contatti quotidiani con persone che spaziavano in un territorio un po’ più ampio, non limitato alla vita di paese come avveniva fino alla prima metà del secolo scorso.
La normalità delle famiglie di oggi è quella di riunire componenti provenienti da frazioni diverse. Quasi tutti sono cresciuti con un padre che parlava una varietà e una madre con una varietà leggermente diversa, vicini di casa trasferiti da altri quartieri e frequentazioni sul lavoro di persone sempre più distanti. Il risultato è che oggi le varietà sono quasi tante quante le persone. Ognuno si è costruito abitudini di pronuncia, che tra l’altro possono variare nel tempo a seconda delle scelte o delle “mode” dovute alle frequentazioni. Basta uno della compagnia che dica “vērd” anziché “vèird(per verde)e ci sarà chi lo copia e porta questa variante a casa.
Oggi sono tanti quelli che come me e tanti miei parenti dicono talora “portêr” e talora “purtêr(per portare), a volte “fērom” e a volte “fèirom(per fermo), a sentimento del momento.

Avrei potuto scrivere tutto secondo le indicazioni grafiche del “pôpol gióst”, ma non sarebbe stato così spontaneo, almeno per quanto riguarda la lettura. Ho preferito rendere il racconto il quanto più naturale possibile, come se a narrarlo fosse stato mio zio. La varietà scelta non rappresenta nemmeno il dialetto parlato sul luogo di ambientazione, che malgrado la toponomastica di fantasia, corrisponde come descrizione ai paesi di crinale più vicini al confine toscano. Ma le vicende sono raccontate dal protagonista, che è un prete trasferitosi lassù, a “casa d’altri”, appunto. Avrebbe potuto benissimo essere cresciuto in area precollinare e raccontare nella propria “léngua mêdra“. Tutto molto verosimilmente spontaneo e naturale, quindi, come già detto.

In merito alle scelte grafiche di coerenza segno-suono che ho adottato in questo lavoro, si basano sostanzialmente sul sistema del dizionario reggiano-italiano Ferrari-Serra, poi riprese nella “Grammatica del dialetto reggiano” di cui sono autore, e grazie alla disponibilità del registrato è sicuramente molto più semplice e chiaro ascoltare direttamente la pronuncia di ogni parola scritta e attribuire il suono corretto a ogni simbolo, anziché rapportarsi ad una legenda dei suoni.
Tuttavia ho inserito alcune varianti particolari di accentazione e di logica della sintassi, che trovate dettagliate nella Nota di postfazione

Denis Ferretti, Luglio 2021

 

 

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